Cose che devono scomparire dalla cultura italiana

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Yashiwara
view post Posted on 8/12/2015, 22:56




Se uno dovesse chiedersi quale sia lo stato attuale della cultura italiana, "attuale" è di certo uno degli aggettivi che non userebbe per primo. VICE ha quindi deciso di segnalare alcuni temi e atteggiamenti della cultura middlebrow (mediamente colta) italiana che manifestano i sintomi di assenza di laicità, chiusura mentale e fanatismo, e che in quanto tali, se sparissero, sarebbe un enorme progresso culturale.


Il culto del cantautorato

L'Italia offre un pantheon di divinità laiche ma assolutamente intoccabili rappresentato dai grandi cantautori che soprattutto nel dopoguerra hanno fatto la storia della musica di questo paese. Anche a distanza di 40 anni non è possibile osservarli con distacco ironico ed eventualmente cercare di analizzarne qualità e limiti, artistici, formali e compositivi. È ancora una volta l'espressione di una nostalgia verso un'epoca che non ha più avuto un reale rinnovamento, e questo anche perché a differenza dei cantautori di culto, le nuove generazioni non hanno saputo elaborare con questi modelli una dialettica antagonista, ma al contrario si sono cristallizzati in forme di culto manichee. C'è poi un altro aspetto che accompagna questo tema, ossia lo strisciante maschilismo nel cantautorato: alle autrici il pubblico e la critica hanno sempre richiesto uno standard "tecnico", saper cantare "bene", laddove invece i colleghi uomini sono poeti che devono interpretare.
Fortunatamente il cantautorato inteso così come oggetto di culto è destinato ad essere secolarizzato e ad estinguersi con il passaggio generazionale. Senza questo fardello un domani sarà possibile cercare di osservare e vivere l'esperienza musicale per quello che è nella sua essenza: suono, composizione, forma e iniziare a considerare la "produzione" come parte fondamentale del processo creativo ed esperienziale, del tutto secondario in Italia considerando la pressoché totale assenza di una scena musicale pop (se non legata a fenomeni arcaici e nostalgici come Il Volo). Sarebbe inoltre necessario superare definitivamente l'affiliazione regionale di questi autori con il loro pubblico (familismo).

La dicotomia comunisti-fascisti

Lungo tutto il Novecento le grandi ideologie hanno creato nette divisioni sociali, culturali e generazionali in Italia. Ma come sono stati trasmessi quegli eventi nella cultura di massa? Nelle scuole e negli ambienti formativi ad un certo punto degli anni Novanta ad esempio si è stabilito in nome del garantismo e del politically correct il diktat di non trattare la politica per non influenzare ideologicamente studenti in quella che ha rappresentato una leggera ma incisiva forma di repressione, privando almeno due generazioni dei temi della politica e soprattutto di coscienza di classe. E questo ha fatto sì che la formulazione dell'identità politica sia stata delegata alla sfera familiare, al bar o all'appartenenza a sottoculture: che hanno portato a semplificazioni, conservatorismi e alla dicotomia pericolosissima e ancora oggi diffusa dell'amico-nemico. Se Berlusconi per decenni ha continuato a utilizzare lo spauracchio dei "comunisti" per ottenere consenso, è evidente che lo ha fatto sapendo bene a chi si stava rivolgendo. Lasciarsi alle spalle questa dicotomia non significa dimenticare la storia, ma imparare a utilizzare questi termini per il loro significato e non come un intercalare senza senso.
Se queste definizioni fossero accompagnate da una reale consapevolezza storica potremmo rapportarci a questi termini con distacco, ponderandone le differenze, e cercando di riflettere sull'influsso che certe ideologie hanno effettivamente avuto sul mondo contemporaneo. Altrimenti, come sempre accade, il rischio è di scegliere secondo il pregiudizio che sentiamo più forte, diventando arbitrariamente fan di quella o dell'altra squadra. Liberandosi di questa strumentalizzazione, gli italiani potrebbero finalmente iniziare a considerare la politica su scala globale, superando il solito schematismo da derby di provincia.

L'equivoco della satira

Abbiamo sopportato decenni di Bagaglino dove gli attori sul palco erano clown e giullari alla corte della politica (tutti in cimbali in prima fila), abbiamo i vignettisti più morigerati e metafisici del mondo, e autori come Crozza che hanno invaso la tv provvedendo ad illustrare e trasformare la condotta indecente e criminale di molti politici in maschere rassicuranti che anziché aggredire il potere lo fanno accettare al pubblico, stabilizzandolo. Per questo motivo il dogma di "non si tocca la satira" è l'ennesimo atteggiamento conservatore che si produce in forme per niente scomode al potere ma anzi totalmente organiche a questo. Senza contare che i veri centri di potere, politico e simbolico non sono mai scalfiti dalla satira italiana che è lontana anni luce da esempi come Charlie Hebdo o un qualsiasi episodio di South Park.
La satira dovrebbe interrogarsi sul suo reale ruolo, non avere fra il suo pubblico proprio quei bersagli che dovrebbe attaccare, ed essere completamente indipendente dai partiti (che senso ha avere comici di destra e comici di sinistra?). Inoltre se abbandonassimo la figura dei comici come maschere della commedia dell'arte, chi fa satira potrebbe sviluppare anche nuove forme d'espressione e di narrazione più significative e valide anche formalmente. Persino la FOX negli Stati Uniti è costretta a ospitare le più acute critiche anti-repubblicane in serie come i Simpson.

Il familismo

Già nel 1870 Francesco De Sanctis nella sua Storia della Letteratura Italiana riconduceva il sistema parentale a quella tendenza a considerarsi clan, con la relativa autarchia dei suoi membri come "una delle espressioni più dirette dell'egoismo familiare, di quel 'familismo' che è origine di tutto il male, di tutte le miserie che deturpano l'umanità." A più di un secolo di distanza possiamo ancora mettere alla prova questa affermazione, confrontandola con alcuni atteggiamenti nostrani come la mafia, il nepotismo, i più agghiaccianti fatti di cronaca nera o anche in forme più lievi, come il luogo comune della "tradizione familiare" che viene sempre ostentato come un valore made in Italy.

La cultura televisiva

Non serve squadernare le solite statistiche rispetto a quanto poco gli italiani leggano, all'analfabetismo di ritorno e all'analfabetismo funzionale, perché se da una parte questi dati sembrano riguardare le classi sociali meno istruite o più povere è vero che la maggior parte degli italiani trova nella tv l'unico mezzo d'informazione. Va sottolineato che i portatori più vivaci e attivi di tale cultura sono da ritrovarsi nel mondo queer che hanno fatto da vera e propria cassa di risonanza a molti di questi fenomeni che dalle D'Urso, alle De Filippi, ai Magalli non ci lasceranno nulla.
Se il pubblico fosse un po' esigente anche la tv italiana potrebbe sfruttare l'enorme potenziale offerto dal mezzo per raccontare i temi di un mondo in evoluzione e proponendo format di intrattenimento che si lascino finalmente alle spalle l'estetica del vernacolare.

L'attaccamento al passato

C'è un video che meglio di ogni altra cosa rappresenta il tragicomico problema del nostro attaccamento nostalgico al passato: lo spot Cultura, cibo per la mente che il Ministero dei Beni culturali ha proiettato ad Expo. Nel breve video girato da Alessandro D'Alatri, un rassicurante Giancarlo Giannini nei panni di un maître davanti a un leggio delizia il suo pubblico snocciolando un metaforico menù dove le portate culturali sono i nostri "archivi", le nostre "biblioteche", "arte in generale", "siti archeologici", "lo spettacolo dal vivo e quello circense", culminando nel claim: "Italia, il cibo per la mente è in tavola".
Questo del Ministero della Cultura e del Turismo è soltanto uno dei molti tentativi che rientrano nella tradizione di dipingere l'Italia come una cartolina sospesa nel tempo dove arte, conoscenza ancestrale, buon gusto e natura sono elementi onnipresenti e comuni del paesaggio italico e dei suoi abitanti. Ovviamente c'è qualcosa di rassicurante nel rapportarsi in questo modo alla storia; in fondo il passato è un luogo confortevole, proprio perché è passato, perché non spaventa nessuno e soprattutto perché è morto. In questo senso lo spot con Giannini esprime pienamente quello spirito retro-nostalgico che tanti condividono nel provare affezione per un passato che non hanno mai esperito e che, verosimilmente non è mai davvero esistito. C'è inoltre l'arrendevolezza verso il futuro, come se la cultura fosse stata un episodio irripetibile, riducendo così gli italiani a meri custodi di giacimenti archeologici, di un mondo che sostanzialmente non ha prodotto più nulla di significativo dopo la seconda guerra mondiale.
Se questo atteggiamento nostalgico ripiegato sul passato e incapace di connotare la cultura di nuovi significati iniziasse a sbiadire, potremmo finalmente iniziare a ricostruire questi significati. Come Federico Zeri scrisse: "un'opera d'arte muore con la società che l'ha prodotta." Sarebbe ora di domandarsi quali sono i segni culturali, le opere d'arte che parlano della nostra contemporaneità. Siamo all'altezza di questo passato? Ne siamo effettivamente i discendenti e i portatori sani, oppure la realtà dei nostri consumi e costumi tratteggia l'Italia come ogni altro paese, adagiata su una cultura egemone american-global?
 
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