L'emigrazione messicana sarà il futuro degli Stati Uniti

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Vidkun Quisling
view post Posted on 7/3/2011, 01:23




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La preoccupazione americana in futuro come lo è già attualmente sarà l'emigrazione. "Il flusso continuo di immigrati ispanici dalle regioni messicane rischia di dividere il paese in due nazioni e due lingue contrapposte". La prima guerra di espansione ridimensionò drammaticamente il Messico, perse metà del suo territorio, e la totalità delle sue ambizioni di supremazia. Se ciò non fosse avvenuto avremmo un secondo Brasile in America, ma era forse ineluttabile per un paese dove il motto dei tempi della rivoluzione zapatista era "Siamo così lontani da Dio e così vicini agli Stati Uniti". La "rivincita" messicana è un'invasione caotica, pacifica, disarmata e non programmata e sembrerebbe quasi inarrestabile.


Gli USA condividono duemila miglia di frontiera del tutto permeabile con il Messico, un paese del Terzo Mondo dal PIL (rivalutato) che è un quarto di quello americano. La contiguità geografica consente alle famiglie degli emigrati di rimanere in osmosi con le loro città e ambienti di origine. L'arretratezza culturale a volte lo impone. L'autore afferma che si tratta dell'unico caso al mondo di un contatto diretto fra i più ricchi dei ricchi e i più poveri dei poveri (se si considerano le favelas e il degrado delle inurbazioni messicane). Non è vero: c'era anche la strana coppia Israele-Palestina prima dell'Intifada e della costruzione della barriera. E forse dopo la Road Map, se mai avrà successo. Ma si tratta di un altro ordine di grandezza. Le masse umane interessate dall'evento, al di qua e al di là del Rio Grande, sono colossali.


Il 27,6 percento del totale dai nati negli USA da stranieri legalmente residenti sono messicani, come il 25 percento dei cittadini naturalizzati negli anni dal 1971 al 1999. Negli anni Novanta era messicano il 50 percento degli immigrati ispanici. Questi a loro volta formavano la metà di tutti gli espatriati negli States. Nel 2000 gli ispanici erano il 12 percento dell'intera popolazione americana, avendo superato gli afroamericani; nel 2050 saranno il 25 percento. La loro fertilità è doppia di quella dei bianchi Wasp e dei neri, già alte per standard occidentali,. Questo vale per quelli con le carte in regola. I messicani illegali presunti sono passati dai 4 milioni del 1995 agli 8-10 del 2003. Sono 25 volte più numerosi del contingente a seguire, i salvadoregni. Tenendo conto dei clandestini, il totale degli ispanici potrebbe salire al 20 percento della popolazione complessiva, con un 35 percento nel 2050. Più della metà messicani, forse molto di più.


E' forse l'aspetto più preoccupante del fenomeno e uno dei più peculiari. Metà degli immigrati vive in California, due terzi negli stati nel sudovest. Quasi metà degli abitanti di Los Angeles sono ispanici, 64 percento dei quali messicani. Fra i giovani le percentuali si impennano. Il 70 percento di studenti del distretto scolastico unificato di Los Angeles (presumibilmente il centro della città) sono ispanici, come nel 2003 la maggioranza dei nuovi nati in tutta la California. Non accadeva dal 1850. Il fenomeno non mostra segni di rallentamento, come è accaduto in passato per le varie ondate migratorie dall'Europa e dall'Asia. In Florida esiste già un esempio concreto di quella che potrebbe diventare una tipica enclave ispanica degli Stati Uniti e cioè Miami. Frutto non di una emigrazione derelitta come quella messicana ma della fuga dalla Cuba castrista delle sue classi medie, ha completamente cambiato natura e pelle della città. Due terzi della sua popolazione sono costituiti da ispanici, e il 75 percento non parla inglese in famiglia. Il 60 percento è nato nell'isola caraibica o in altri paesi dell'America Latina. Il potere, la cultura e lo sviluppo sono nelle loro mani. Hanno investito nelle attività economiche della città le cospicue risorse che avevano depositato nelle banche americane quando il Lider Maximo prese il potere. Miami ha più rapporti con il Centro e Sudamerica che con il suo retroterra continentale. Dal 1983 al 1993 140.000 abitanti "anglo" l'hanno lasciata. L'ultimo, secondo una nota battuta, ammainando la bandiera a stelle e strisce e portandosela via. Il giorno che Cuba dovesse de-castrizzarsi, forse anche gli altri gringos rimasti seguirebbero.


Nessuna delle migrazioni che di volta in volta sono approdate negli USA ha mai avanzato alcuna pretesa territoriale o di altra natura nei loro confronti. Bastavano le immense opportunità di un continente vergine. Per la prima volta ciò sta succedendo. I messicani possono rivendicare, con legittimità storica, le terre strappate loro dagli americani nelle citate guerre ottocentesche. Lo stanno facendo in modo sempre più consapevole. Texas, New Mexico, Arizona, California, Nevada, Utah: sono tutte terre potenzialmente irredente. Il Professor Truillo, della Università del New Mexico, ha anticipato che per il 2080 gli stati settentrionali del Messico e meridionali degli USA formeranno la "Repubblica del Norte". Vari autori cominciano a parlare di Metamerica, Amexica, o Mexifornia. Dagli anni Ottanta il governo messicano ha apertamente contribuito a queste rivendicazioni, cercando di estendere l'influenza delle comunità messicane negli USA e i loro collegamenti con la madrepatria. Qualche anno fa il Presidente Zedillo affermò che la nazione messicana si estendeva oltre i confini del Messico. Il suo successore, Vincente Fox, nel suo discorso di insediamento si dichiarò leader di 123 milioni di messicani, 100 nel Messico e 23 negli Stati Uniti.

Questi ultimi finiscono per professare una doppia appartenenza, una fedeltà a due patrie. E' evidente quale di esse determina il maggior coinvolgimento emotivo. Sotto la protezione del NAFTA, che impedisce l'erezione di barriere e steccati da parte degli spaventati sudisti statunitensi, la "Mexicanidad" degli antichi confini originari è sempre più enfatizzata e celebrata. Nel 1998 partecipò ai festeggiamenti che rievocavano le antiche glorie anche il vice premier spagnolo. Per inciso, questa può essere un'ottima ragione per il recente corteggiamento americano alla Spagna, che ha un immenso carisma storico e culturale presso tutti i paesi ispanofoni dell'America Latina. Aznar l'aveva capito bene e stava cavalcando l'ondata alla grande. Zapatero non ha capito o segue altre priorità. Huntington osserva che il sudovest USA potrebbe diventare il Quebec statunitense. Forse lo è già diventato. Ma il Quebec dista 5000 chilometri dalla Francia, e nessun milione di francesi tenta di penetrarvi illegalmente ogni anno. Per dirla con l'autore, "La storia insegna che esiste un serio potenziale di conflitto quando la popolazione di un paese comincia a riferirsi alle terre di un vicino in termini proprietari, e ad avanzare su di esse diritti speciali e rivendicazioni esclusive."


Derivano forse da difficoltà culturali obiettive, ma si caricano facilmente di significati legati ai diritti e alle rivendicazioni testé menzionate. I messicani si autoghettizzano con convinzione, aiutati anche dalla diffusione dei media in spagnolo e dalla vicinanza della propria terra. I loro intellettuali teorizzano con orgoglio questo atteggiamento, come un'ennesima prova che "I messicani sono ossessionati dalla storia, gli statunitensi dal futuro." Non rendendosi conto, forse, che le masse di diseredati non possono essere sfamate solo con la storia. Molti di loro vivono all'interno delle comunità di compatrioti senza conoscere una parola di inglese o pretendendo che i loro figli parlino spagnolo in famiglia. Rifiutano di omologarsi come avevano fatto i loro predecessori, spesso con entusiasmo. Pensiamo agli italiani, che pur avendo modelli socio-culturali simili hanno abbracciato con fervore l'americanizzazione.


I messicani possono fare altro e lo fanno. Non accettano l'american way of living e non condividono i valori volontaristici ed etici della civiltà che li accoglie. Sono diffidenti verso qualsiasi contesto che non sia quello familiare - il loro, naturalmente. Sono accusati di pigrizia, mancanza di iniziativa, sfiducia verso il duro lavoro e l'educazione come mezzo di elevazione sociale, propensione alla illegalità, fatalismo eccessivo, inclinazione verso quella sindrome del "magnana" che più lontana non potrebbe essere dal "can do, ora e subito" dello spirito dei pionieri. In compenso, i territori dove stanno insediandosi sempre più numerosi sono costretti a ispanizzarsi. Gli affari e l'amministrazione sono ormai bilingue e tutti i politici locali devono diventarlo (come George W. Bush quando era governatore del Texas). Il presidente Clinton nel suo discorso di commiato si augurò di essere l'ultimo presidente a non conoscere lo spagnolo. Apparentemente è stato accontentato.

Dopo tante approfondite analisi, Huntington omette di azzardare previsioni o suggerire contromisure. In un contesto NAFTA le ultime sono evidentemente impossibili. L'unica anticipazione tentata dall'autore è una sconsolata fine degli Stati Uniti come li abbiamo conosciuti, e l'ipotesi che domani potrebbero assomigliare al Canada o al Belgio, paesi oltremodo aborriti dagli estimatori dell'orgoglioso senso di unicità della nazione americana. E Huntington è dichiaratamente uno di essi, molto di più di quanto era apparso nelle sue precedenti opere. Qui forse sta il limite della sua analisi, come è stato rilevato in una recensione al "Who are we?" che abbiamo citato in precedenza, apparsa su Foreign Affairs a firma di Alan Wolfe. Oltre a contestare il tono pessimistico delle previsioni, Wolfe critica il passaggio dall'obbiettività scientifica, che era uno dei massimi punti di forza di Huntington, a un ideologismo populistico, veteroamericano e carico di pregiudizio che può sedurre chi ha propensioni in tal senso ma toglie molto vigore alle argomentazioni. Sulle quali peraltro ci sarebbe da discutere.

Ad esempio, la percentuali di ispanici fra i caduti nell'attuale corpo di spedizione americano in Iraq è del 12 percento, eguale a quello della media nazionale. Essendo l'esercito formato da volontari, ciò significa che il patriottismo verso l'America è presente nei messicani, nei salvadoregni e altri in misura equivalente a quello degli altri americani. E' vero che l'arruolamento è un modo rapido per la naturalizzazione, ma non si rischia la pelle a Falluja in quel modo solo per un pezzo di carta. C'è dell'altro, c'è il sogno americano che anche stavolta fa capolino forse in modo subliminale. Sognato in spagnolo piuttosto che in inglese, come auspica esplicitamente Huntigton con una certa supponenza. D'altra parte non sempre si può passare rapidamente dalle favelas al prato verde dei sobborghi bene. Come afferma Wolfe "Altri paesi sarebbero felicissimi di verificare un tal grado di assimilazione ai propri valori patriottici da parte degli immigrati di nuovo conio."

Huntington evoca ripetutamente l'America Wasp come un solido e omogeneo coacervo di valori che sarebbe messo in pericolo dall'irruzione della cultura e dei modi di vivere dei messicani. Si tratta di un'affermazione tutt'altro che condivisibile. Il frazionismo ideologico, razziale e religioso è stato sempre una costante del melting pot, persino ai tempi dei padri fondatori, che erano divisi su tutti gli argomenti possibili, salvo quello di sganciarsi dagli esosi gabellieri di Sua Maestà britannica. La Guerra Civile non l'hanno fatta i messicani. Facevano le rivoluzioni, che sono un'altra cosa. Le Americhe sono tante e contraddittorie, come sanno tutti quelli che le hanno frequentate, e quello è il loro maggior fascino.

Potremmo aggiungere che se Huntington mette in luce il grado di ispanizzazione di una parte degli USA, si dimentica di fare altrettanto per l'americanizzazione del Messico, dell'America Latina, dell'Europa, dell'Asia e dell'intero pianeta. La globalizzazione è una two way street, e dopo avere invaso questa terra con i propri stilemi non c'è da stupirsi che avvenga un po' anche il contrario. Gli Stati Uniti non potranno che esserne arricchiti e migliorare le limitate percezioni che hanno del mondo esterno, causa di tanti problemi, per loro e per gli altri.

Resta il fatto che se la concentrazione di messicani nelle aree americane storicamente rivendicate dal Messico dovesse superare il livello di sostenibilità da parte del sistema sociale e politico americano, potrebbero veramente nascere guai. Il Messico non ha mai fatto nulla in tempi recenti per avanzare pretese geopolitiche appoggiate dai consueti mezzi di pressione strategica. Innanzitutto perché non ne è in grado, essendo borbonicamente consapevole della latitanza delle proprie artiglierie. D'altra parte non sono più gli Stati, o non sempre sono loro, a rappresentare le aspirazioni dei popoli, come mostra la cronaca di tutti i giorni. L'asimmetricità si sta affermando come la principale dimensione dei contenziosi violenti di oggi. Non richiede Stati maggiori, cannoni, stendardi e scuole di guerra. La commistione fra fattori diversi e concomitanti, come la disinvoltura di molti ispanici verso l'illegalità, la diffusione incontrollata delle armi da fuoco negli Stati Uniti, le tematiche legate al traffico e alla diffusione della droga (che vedono colombiani e messicani ai vertici dello stato dell'arte), la possibile intolleranza dei padroni di casa verso queste nuove realtà… potrebbero fornire una miscela esplosiva sufficiente a dar corpo alle peggiori anticipazioni. Non mancano coloro che hanno un lucido interesse perché ciò avvenga, a prescindere dai flussi immigratori nordamericani.
 
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.•°*•.Francesca.•°*•.
view post Posted on 7/3/2011, 10:27




perfavore puoi sempre mettere la fonte degli articoli che posti ?
 
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Admiral Kriegsmarine
view post Posted on 7/3/2011, 12:28




Si stima che tra 15 anni circa 500 milioni di persone parleranno lo spagnolo nel Mondo, se ciò dovesse accadere negli Stati Uniti credo che l'inglese nel corso degli anni rischia veramente di perdere il posto di "lingua ufficiale".
 
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Vidkun Quisling
view post Posted on 7/3/2011, 17:17




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Rivfader
view post Posted on 7/3/2011, 20:38




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